Capsule di caffè riducono la fertilità. Lo dice la scienza

Secondo una ricerca dell’Università di Padova, le capsule di caffè causerebbero una riduzione della fertilità

6 Dicembre 2016

Le capsule di caffè riducono la fertilità. A rivelarlo una ricerca scientifica realizzata dall’Università di Padova, secondo cui le capsule sarebbero dei veicoli di interferenti endocrini in grado di ridurre la fertilità. A illustrare la scoperta Carlo Foresta, ordinario di Endocrinologia all’Università degli Studi di Padova, secondo cui grazie agli studi sul caffè “abbiamo visto che quello in cialde o in capsule di plastica o alluminio è un potenziale veicolo di interferenti endocrini”.

“Gli ftalati – ha svelato il professor Foresta – sono degli agenti chimici aggiunti alle materie plastiche per aumentarne la flessibilità. Sono ovunque, ma non ce ne accorgiamo. E svolgono un’azione simil-estrogenica nel nostro organismo. Secondo recenti ipotesi, aumenterebbero l’incidenza di patologie andrologiche osservata negli ultimi venti anni”. Sarebbero proprio gli ftalati a provocare l’infertilità: “In diverse specie animali gli ftalati modificano il funzionamento del sistema riproduttivo e – ha rivelato Foresta – sono ritenuti anche per l’uomo tra quei contaminanti che possono agire negativamente sulla fertilità”.

La ricerca è stata realizzata in collaborazione con il Cnr allo scopo di valutare la quantità di ftalati contenuti nel caffè. Bene. Ne è emerso come “tutti i prodotti testati, dalle capsule in alluminio a quelle in plastica e materiale biodegradabile, si sono rivelate capaci di rilasciare gli ftalati nel caffè”. I ricercatori hanno però chiarito di non voler proibire o sconsigliare l’uso delle cialde: “Non vogliamo demonizzare nulla, anche perché le concentrazioni riscontrate sono nell’ambito dei range consentiti. Ma dev’essere considerato che, anche attraverso questa contaminazione, si contribuisce al raggiungimento dei valori soglia segnalati come nocivi dalle autorità sanitarie nazionali ed internazionali”.

Nonostante ciò la scoperta compiuta dal team di studiosi di Padova dovrebbe portare a porre “importanti interrogativi sui criteri indicati per valutare il valore soglia quando non è ancora nota la reale diffusione di queste sostanze che nei singoli casi rientrano nel range, ma è difficile comprendere la globalità dell’assunzione”. La ricerca comunque sia non si ferma qui e gli studiosi hanno intenzione di indagare ancora sulla questione. “Sarebbe importante cercare di capire se, nell’arco della giornata, si superano i limiti dell’assunzione, quantificando i valori medi di esposizione – ha spiegato Foresta -. Una ricerca che aiuterebbe anche a decidere in che modo eventualmente limitare l’esposizione”.

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