Due Papi estremamente diversi, due contesti storici completamente mutati, eppure l’idea di un’immagine comune che si fa spazio tra le righe del tempo: quella della fragilità che si mostra al mondo. In questi giorni, l’attesa della Pasqua 2025 si fa sempre più carica di una tensione silenziosa. Papa Francesco, dopo un periodo difficile nel quale ha combattuto duramente contro dei terribili problemi di salute, potrebbe non presenziare alle celebrazioni più importanti dell’anno liturgico. Si tratta di una situazione che ci riporta inevitabilmente alla mente un’altra Pasqua, quella del 2005, quando Giovanni Paolo II, gravemente malato, benedisse i fedeli senza riuscire a pronunciare alcuna parola. Sembra esserci un legame tra queste due figure, andiamo a scoprirlo insieme.
- Cosa succederà a Pasqua 2025? Papa Francesco potrebbe non prendere parte alle celebrazioni
- Il precedente di Giovanni Paolo II e della Pasqua del 2005
- La sofferenza come parte del ministero: Francesco come Wojtyla?
- Una profezia condivisa? Cosa hanno in comune Francesco e Giovanni Paolo II
Cosa succederà a Pasqua 2025? Papa Francesco potrebbe non prendere parte alle celebrazioni
Andiamo con ordine e partiamo dalle condizioni di salute di Papa Francesco che, come tristemente sappiamo, sono da tempo sotto gli occhi del mondo. Dopo la recente uscita dal lungo ricovero per una polmonite bilaterale al Policlinico Gemelli, il Pontefice sta affrontando una lunga convalescenza. Si sta ancora sottoponendo a terapie farmacologiche, fisioterapia motoria e respiratoria, fondamentale soprattutto per il recupero della voce. Dunque, a pochi giorni dalle celebrazioni pasquali, il Vaticano ha diffuso il calendario della Settimana Santa, ma senza precisare se il Papa sarà presente. Un dettaglio che non va certo in secondo piano, soprattutto poiché ricade nell’anno del Giubileo.
La Santa Sede ha dichiarato che le condizioni di salute di Bergoglio saranno valutate nei giorni immediatamente precedenti alle celebrazioni. La decisione, quindi, è ancora aperta. Ma il solo fatto che si stia prendendo in considerazione la possibilità di un’assenza del Papa in una ricorrenza così centrale per la fede cattolica, dice molto sulla situazione. È possibile, infatti, che Francesco scelga di restare appartato, in preghiera, senza partecipare pubblicamente alla Messa del giorno di Pasqua o alla tradizionale Benedizione “Urbi et Orbi”.
Di sicuro si tratta di un evento che non lascia indifferenti. Anche perché il Papa, per la Chiesa, è non solo guida spirituale ma anche presenza visibile. Tuttavia, proprio come accadde vent’anni fa, potrebbe essere il silenzio – e non le parole – a diventare il mezzo più potente per comunicare.
Il precedente di Giovanni Paolo II e della Pasqua del 2005
Con la situazione attuale di Francesco, il paragone con Giovanni Paolo II viene quasi naturale. Non tutti lo ricordano ma, a marzo 2005, il Papa polacco (colpito da tempo dal morbo di Parkinson e da altri gravi problemi di salute) era visibilmente consumato dalla malattia. Eppure, nonostante tutto, il giorno di Pasqua si affacciò alla finestra del suo appartamento apostolico. Non riusciva a parlare, ma volle comunque benedire i fedeli in quella che è rimasta alla storia come la “benedizione muta”.
Sollevò la mano, tracciò il segno della croce e rimase in silenzio, per alcuni secondi che colpirono il mondo intero. L’immagine di un Papa che non aveva più la forza della voce ma non rinunciava alla sua missione rimase impressa nella memoria collettiva. Non rappresentava una semplice testimonianza di sofferenza: era la scelta consapevole di continuare a mostrarsi al popolo, anche nella fragilità estrema.
E si trattava anche di un gesto che si schierava contro la logica dominante nella società moderna, nella quale la malattia si tende a nascondere. Wojtyla, invece, la mise al centro della scena e di viverla come parte integrante della sua missione pastorale. Lo fece anche in altri momenti di quella Settimana Santa: ad esempio, durante la Via Crucis del Venerdì Santo, seguita dalla cappella privata, in preghiera con la fronte appoggiata al crocifisso.
La sofferenza come parte del ministero: Francesco come Wojtyla?
La presenza pubblica di un Giovanni Paolo II che decise di mostrarsi al popolo cattolico in quelle condizioni fu interpretata da molti come un atto di martirio. Non nel senso spettacolare del termine, ma in quello più autentico: offrire la propria sofferenza come testimonianza di fede. La sua debolezza fisica non era qualcosa da superare o occultare, ma una via per mostrare il significato profondo del Vangelo.
Wojtyla sembrava voler riportare l’attenzione sull’essenziale: la Croce, il sacrificio, l’amore portato fino in fondo. Il silenzio del Papa, in quella Pasqua, era tutt’altro che vuoto. Anzi, rappresentava un messaggio potente, rivolto ai fedeli e al mondo: anche nella debolezza, la fede può essere ferma.
L’allora cardinale Ratzinger — futuro papa Benedetto XVI e all’epoca prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede — durante la Via Crucis pronunciò delle parole che risuonano come pregne del significato del gesto del suo predecessore sul soglio di Pietro: “Dobbiamo pensare a quanto Cristo debba soffrire nella sua stessa Chiesa”.
Oggi, Papa Francesco si trova in una situazione che, per certi versi, richiama quella del suo antico predecessore. Non ci troviamo davanti alle stesse condizioni fisiche nelle quali versava Wojiyla ma ci troviamo comunque di fronte a un Pontefice la cui voce è affaticata, la cui salute è incerta, e che potrebbe scegliere di non partecipare attivamente ai riti pasquali.
Anche per lui, quindi, potrebbe essere il silenzio a farsi linguaggio. Non per scelta strategica, ma per necessità. Non è un caso che il cardinale Gianfranco Ravasi abbia osservato che Francesco, pur faticando a parlare, “può comunicare col silenzio”. Ed è vero: il linguaggio della fede può non essere limitato alle parole. Anche la preghiera solitaria, la sofferenza vissuta con discrezione, la rinuncia alla visibilità possono essere forme di testimonianza.
In un mondo dove la comunicazione è continua, dove l’immagine conta più del contenuto, un Papa che tace o che non si mostra può dire molto. Può richiamare l’attenzione sul fatto che il cuore del Cristianesimo non sta nello spettacolo della liturgia, ma nella verità del messaggio che essa porta.
Una profezia condivisa? Cosa hanno in comune Francesco e Giovanni Paolo II
L’idea che Francesco e Wojtyla condividano una profezia non ha nulla di esoterico o misterioso. È una profezia intesa nel senso biblico: la capacità di leggere il presente alla luce del Vangelo. Entrambi i Papi, in maniera diversa e con uno stile di pontificato completamente differente, mostrano che la fragilità umana non è un ostacolo alla guida spirituale, ma anzi può esserne parte costitutiva.
Giovanni Paolo II lo ha fatto mostrandosi fino alla fine. Francesco potrebbe farlo ora, decidendo di farsi da parte, non per abbandonare il popolo di Dio, ma per ricordare che la guida non è solo visibilità, ma coerenza, preghiera, offerta.
Se davvero il Papa non parteciperà alla Pasqua del 2025, la sua assenza potrebbe assumere un significato simile a quello della benedizione muta di vent’anni fa. Un gesto discreto, ma capace di dire più di molte parole. E forse, come allora, la Chiesa sarà chiamata a leggere quel silenzio come un invito: a tornare all’essenziale, a non avere paura della debolezza, a riconoscere che anche la malattia può diventare parte del cammino della fede. E se sarà il silenzio a parlare anche quest’anno, forse ci aiuterà a riscoprire ciò che conta davvero.